Barbershop Revolution: Julius Erving, Doctor J.

Luca Mich
5 min readApr 26, 2021

E’ uscita la nuova puntata (la 12) di Better Go Soul. Parla di capelli, di rivoluzioni culturali, di stile e di Julius Erving, uomo e cestista che ha cambiato il modo di essere percepiti, e forse anche quello di percepire se stessi, degli afroamericani dagli anni 70 in poi. Lo trovate su Spotify, Spreaker e Apple Podcast e dentro c’è tantissima musica funk di quegli anni.
Lo scritto invece è stato pubblicato da Around The Game, portale di informazioni cestistica NBA. Qui ne riporto un estratto, il resto lo trovate nel podcast cliccando play oppure su Around The Game in formato testuale. Enjoy!

È l’estate del 1941, siamo a Roxbury, quartiere afroamericano di Boston, Massachusetts.

Il piccolo Malcolm Little entra in un negozio di commestibili con un elenco che l’amico Shorty gli aveva scritto per bene a caratteri cubitali, in stampatello. Malcolm compra un barattolo di liscivia, due uova e due patate bianche di grandezza media. Poi chiede al droghiere del negozio vicino a casa di dargli un grande barattolo di vaselina, un pezzo di sapone, un pettine fitto fitto e uno con i denti molto radi. Aggiunge un tubo di gomma con una testa di metallo per doccia, un grembiule e un paio di guanti, sempre in gomma.

Il droghiere si insospettisce: “Per caso vuoi farti la prima stiratura?”

Malcom gonfia il petto, inspessisce la voce e grida orgoglioso: “Proprio così, signore!”

Torna di corsa da Shorty e dà il via al processo che lo avrebbe portato ad avere dei capelli perfettamente lisci, come quelli dei bianchi che lo schifavano con tutti quei ricci in testa. Shorty sbuccia le patate, poi comincia a mescolare con un cucchiaio di legno mentre aggiunge lentamente mezzo barattolo di liscivia. Ne esce un miscuglio denso, bollente e gelatinoso al quale vengono pure aggiunte due uova. Shorty avverte il piccolo Malcolm: “quando te lo appoggerò sui capelli dovrai stare molto fermo, sentirai bruciare parecchio ma più riuscirai a sopportarlo più lisci diventeranno i tuoi capelli!”.

La melassa inizia a colare sulla cute del piccolo Little, mentre Shorty inizia a tirarla con il pettine su tutta la superficie disponibile. Malcolm grida di dolore, stringe i denti e si aggrappa con tale violenza ai due lati del tavolo della cucina da dare l’impressione di volerli far coincidere. Quando Shorty gli passa il pettine tra i capelli è come se gli strappasse la pelle pezzo per pezzo. Suda, trema ed inizia a lacrimare: “basta Shorty ti prego, penso che per questa volta siano abbastanza lisci così”.

Malcom in quel momento non lo sapeva, anzi, l’avrebbe realizzato lucidamente solo qualche anno dopo, ma quello fu il primo grande passo verso l’auto-degradazione: sopportò tutto quel dolore per fare come facevano tutti all’epoca, far diventare lisci quei capelli crespi e ricci così selvaggi e naturali da essere considerati sbagliati. Entrò così, senza pensarci e ritenendolo la cosa più giusta da fare, a far parte della moltitudine di uomini e donne afroamericane spinte con ogni mezzo a credere che i neri fossero esseri inferiori, fino al punto da distorcere i loro corpi nel tentativo di sembrare graziosi secondo i criteri di giudizio dei bianchi.

Sì, Malcom Little in quel momento era appena sedicenne e non si era ancora reso conto della violenza psicologica che il suo popolo si auto-infliggeva con quel gesto. E no, in quel momento Malcolm Little non era ancora diventato Malcolm X.

Dovete sapere che ancora negli anni ’60, per un afroamericano era normalissimo stirarsi i capelli o coprirli con parrucche più simili possibili ai capelli dei bianchi: era un modo per sentirsi maggiormente accettati, per nascondere se stessi agli altri, per essere meno neri. E se camminate ancora oggi per le strade Harlem, di El Barrio, sopra la 126esima, noterete quanti negozi di parrucche ancora ci siano.

Pensate che i capelli lisci negli Stati Uniti vengono chiamati “the good hair”, letteralmente i capelli giusti, quelli lisci, morbidi, setosi — da donna bianca, in altre parole. Per molto tempo nelle comunità afroamericane questo è stato uno standard di bellezza che si cercava di raggiungere con pesanti permanenti chimiche e/o con parrucche cucite sui capelli intrecciati. Solo a fine anni ’60, infatti, grazie al movimento Black Feminism le ragazze e poi anche i ragazzi afroamericani iniziarono a ribellarsi a questi canoni estetici e a diffondere finalmente il “natural hair movement”: via libera alle capigliature afro, ai cornrows (le treccine), ai dreadlocks e tutto ciò che oggi rende così iconica e necessaria la manifestazione dell’io, la libertà di essere se stessi, che gli afroamericani esprimono con orgoglio anche attraverso la propria capigliatura.

Scorrete le discografie di Beyoncè, Solange, Gill Scott Heron, o ancora dei Parliament/Funkadelic, o di Rapsody, Alicia Keys, Kendrick Lamar; leggete le tra le righe del dress-code NBA quando Allen Iverson e Latrell Sprewell portavano la strada in campo con i loro cornrows, le treccine in testa; osservate con attenzione l’acconciatura nei discorsi della black panther Angela Davis o nei monologhi di Pam Grier nei film blaxploitation. Quei capelli non sono mai stati solo una questione di stile, ma di libertà, espressione e politica.

E’ per questo che i “barbershop”, quelli che noi chiamiamo barbieri o parrucchieri, sono così importanti nella cultura afroamericana: l’ora trascorsa lì dentro ad esprimere la propria personalità attraverso quei capelli così modellabili ed intrecciabili, è ogni volta una piccola rivoluzione di stile ed espressività; mentre le “barbershop conversations” vagano dalle storie di quartiere a quelle sportive, da chi abbia fatto per la prima volta il moonwalk in TV a chi abbia segnato più punti in carriera tra Magic e Bird, a chi abbia davvero rivoluzionato il gioco del basket così come noi lo conosciamo oggi. Oppure, chi, tra i due uomini volanti più iconici di tutti i tempi, abbia per davvero cambiato non solo il gioco, ma anche lo stile.

Tra chi idolatra il jump-man dalla testa rasata, Michael Jordan, e chi il dottore dal bulbo afro più famoso di tutti i tempi: Doctor J, Julius Erving

Ascoltalo in formato podcast:

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Luca Mich

Viaggiatore, copywriter, baller e vinyl digger: dal ‘95 seguo la NBA e mi nutro di black music. Scrivo di basket per La Giornata Tipo e Around The game.