New York Made me: Kenny Anderson su La Giornata Tipo

Luca Mich
4 min readApr 8, 2021

La storia che ho scritto sul giocatore del Queens e sui cui ho basato la realizzazione della 11° puntata del podcast #bettergosoul , è uscita in formato digitale su La Giornata Tipo. Ne riporto di seguito la primissima parte e il link per continuare a leggerla. La grafica è realizzata da Simone Colongo.

Se c’è una cosa che mi ha sempre colpito di New York City è il rapporto tra ciò che è micro e ciò che è macro: ciò che vedi in superficie e ciò che vivi immergendotici. Le storie che arrivano a noi al di qua dell’Oceano e quelle che si raccontano in strada, agli angoli, The Corners, dove le cose semplicemente accadono.

La storia della hip-hop culture è emblematica… a noi europei è arrivata come qualcosa da studiare, sviscerare comprendere attraverso le 4 discipline: il breaking ossia il ballo di strada più coreografico che si possa immaginare, il writing ossia la street art che ha cambiato la storia delle gallerie contemporanee e trasformato i grigi muri di mezzo globo in tavole da dipingere, il djing e l’mcing ovvero le due componenti fondamentali della musica rap. La differenza è che qui l’abbiamo appreso così, imparato, adattato e duplicato, di là l’hanno semplicemente vissuto. Cammini per New York e ti chiedi dove sia l’hip hop oggi, per poi accorgerti che è dappertutto: è il ritrovo al parco del sabato pomeriggio col boombox che pompa beats mentre tutti ballano, non conta l’età né l’estrazione sociale. E’ il block party della domenica su ad Harlem con le strade chiuse, le bancarelle di prodotti locali, i bambini che “braekkano”, qualche mc che spara delle rime che sembrano roba di Rakim. E’ lo swag dei tipi all’angolo che che ti fanno i props per la maglietta che indossi, è nel muovere il collo alla guida mentre sei al semaforo. E’ un microcosmo che è diventato mondo, che ha creato mondi, un micro che è macro.

E poi c’è un altro micro che da fuori ti raccontano ma che non ti arriva mai esattamente com’è. E’ quello dei playground, dei campetti che qui trovi ad ogni isolato, soprattutto a Brooklyn, nel Queens, ad Harlem e nel Bronx. Li vivi passandoci, giocandoci, ascoltando e rispettando chi comanda.

Dall’alto invece, dal macro, mentre ci voli sopra in aereo, mentre stai per atterrare al JFK, non li vedi quasi quei 28 metri di asfalto. In compenso conti campi da baseball a perdita d’occhio. Ce ne sono a centinaia, enormi, illuminati. I campetti sembrano meno invece eppure, mentre cammini tra i mattoni rossi dei quartieri periferici, ne incontri uno dietro l’altro: The Cage, Soul in The Hole, The Goat, Groover Washington, Park Slope, il Rucker

E qui sì che la dimensione locale diventa sempre più micro, grazie alle storie che si raccontano e si generano di continuo su quell’asfalto. Roba che poi si ingigantisce e diventa leggenda, che arriva fino a noi grazie a qualche documentario, allo storytelling e a qualche buon libro scritto da gente che ne sa o meglio, gente che ha saputo…vivere e raccontare.

Sono storie di giocatori che con il loro gioco ce l’hanno fatta a uscire dalla miseria dei projects, di altri che invece hanno deciso di rimanere sulla strada, come The Goat, quello che dicono essere stato il più grande giocatore di strada della storia: Earl Manigault a cui oggi è intitolato l’omonimo bellissimo playground sulla 99esima, che ai tempi negli anni 70 era un luogo malfamato ed oggi è stato inglobato dalla gentrificazione dell’Upper West Side, una delle zone più “borghesiland” di tutta Manhattan. Su chi ce l’ha fatta o non ce l’ha fatta c’è tantissimo da scoprire, sviscerare ed imparare. Poi però c’è quella zona grigia, quella di chi dal ghetto ci sarebbe anche uscito, quella di chi il sogno dei pro, delle luci della ribalta, dei milioni facili sul conto corrente, li avrebbe anche guadagnati a suon di palleggi, crossover, behind the back…

Quella zona lì è quella che una volta spentisi i fari che illuminano tanto da accecare, trabocca di storie di solitudine, di demoni che infestano le scelte di chi grazie al successo, alle proprie skills, all’hype e all’interesse morboso generato da tutto ciò che li circondava, pensava di essere libero di fare le proprie scelte, e invece si ritrova dopo qualche anno a fare i conti con se stesso, con quel ghetto che è più dentro che fuori, quello che lo incatena ai propri irrisolti.

Quella zona grigia è LA zona di un fenomeno del Queens, quartiere tra i più poveri di New York, che negli anni ’90 ha anticipato l’hype e l’ossessione mediatica che in epoca recente ricordiamo applicata a fenomeni come Lebron James o Zion Williamson. Quella zona grigia è quella di Kenny Anderson.

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Luke
#bettergosoul

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Luca Mich

Viaggiatore, copywriter, baller e vinyl digger: dal ‘95 seguo la NBA e mi nutro di black music. Scrivo di basket per La Giornata Tipo e Around The game.